venerdì 15 aprile 2011

Margin Debt e tensioni inflattive. La spada di Damocle sui rialzi delle Borse.


(Margin Debt USA - Clicca per ingrandire)
(Inflazione USA - Clicca per ingrandire)
(La componente Energy sul CPI - Clicca per ingrandire)
IL Margin Debt è l'ammontare di denaro preso in prestito dagli operatori di mercato presso banche e brokers per acquistare attività finanziarie, in particolar modo azioni. IL collaterale a garanzia del prestito è costituito dalle medesime attività finanziarie acquistate con il prestito contratto, sul quale ovviamente grava un tasso d'interesse. Negli Stati Uniti questa pratica è ritenuta normale ed è largamente diffusa da oltre un secolo. Normalmente viene richiesto agli operatori un margine di garanzia pari al 50%, cioè almeno la metà del valore dei titoli acquistati. Le recenti politiche di quantitative easing della Fed hanno messo a disposizione un'enorme liquidità ad un costo estremamente ridotto, incentivando negli ultimi mesi l'acquisto di azioni a margine. IL grafico del Margin Debt parla chiaro: l'esposizione è aumentata da 173,3 miliardi di dollari (picco minimo del febbraio 2009) ai 310,27 miliardi dello scorso febbraio. I valori sono piuttosto elevati, e superano il picco del 2000 (anche se per un confronto più corretto tra le grandezze andrebbe applicato un deflatore), ma restano ancora lontani dai 381,3 miliardi di dollari del luglio 2007 (massimo di tutti i tempi). Il meccanismo è ovviamente autorinforzante, nel senso che l'aumento del prezzo delle azioni fa sì che aumenti il valore del margine a garanzia, e questo permette di prendere a prestito ulteriori somme di denaro per acquistare azioni aggiuntive. In altre parole si crea un circolo virtuoso (o vizioso, a seconda dei punti di vista) che provoca nuovi aumenti nei prezzi dell'equity. IL rovescio della medaglia è dato dal fatto che nel momento in cui i corsi azionari scendono, il valore del margine a garanzia si contrae, e di conseguenza gli operatori sono costretti a vendere per ricostituire il rapporto iniziale. In questo caso si crea un meccanismo contrario al precedente: ribassi dei prezzi azionari provocano ulteriori discese in accelerazione. Un evidente esempio di questo fenomeno è riscontrabile tra il settembre 2008 e il febbraio del 2009, quando il margine si è contratto da circa 300 miliardi a 173 miliardi di dollari, provocando il crash che ben conosciamo sui mercati azionari. Interessante notare che l'inversione di tendenza del Margin Debt anticipa molto bene le inversioni dei mercati finanziari, e non potrebbe essere altrimenti: i picchi di marzo 2000 e luglio 2007 sono arrivati qualche mese prima dell'inizio del crollo delle quotazioni; così come l'inversione al rialzo nel settembre 2002 e quella del febbraio 2009 hanno anticipato, rispettivamente, i rally del 2003/2007 e quello attuale ancora in corso. Osservando dunque l’andamento della curva a partire dal marzo del 2009, quando ha ricominciato a crescere con una certa regolarità, possiamo notare che c’è stato un solo un piccolo campanello d’allarme tra aprile e giugno 2010, con una contrazione di 30 miliardi di dollari (flash crash del maggio 2010). Dopo questa incertezza l’indebitamento ha ripreso a salire, accelerando il tasso di crescita, a partire dal settembre 2010. La convenienza ad indebitarsi per esporsi sull’equity sussiste ovviamente finchè lo scarto tra l’interesse pagato sulle somme prese a prestito e il rendimento atteso sulle attività acquistate risulta positivo, e di una certa consistenza, considerata sufficientemente remunerativa dagli operatori per il rischio assunto. L’eventuale continuazione delle allegre politiche monetarie espansive da parte della Fed, non farebbe altro che gettare ulteriore benzina sul fuoco, con il risultato di far lievitare ulteriormente il Margin Debt e, di conseguenza, i corsi azionari. Il fattore che può contribuire a ridurre questa forbice (oltre ad una riduzione dei rendimenti attesi sull’equity) è rappresentato dal tasso d’interesse che allo stato attuale, negli USA, resta ancorato ai minimi. Certamente si rilevano tensioni inflattive negli ultimi mesi, oltre che in Europa anche negli Stati Uniti, soprattutto a causa della componente “Energy” (confrontare il rapporto CPI del Bureau of Labor di marzo) sulla quale pesano notevolmente i carburanti (legati al prezzo del petrolio). Questo potrebbe impattare negativamente sulle aspettative di un eventuale imminente rialzo dei tassi, e in questo caso gli operatori potrebbero essere indotti a portare a casa i profitti realizzati negli ultimi 24 mesi, innescando quindi il circolo vizioso sul Margin Debt di cui si parlava prima. Molto importante in questo senso il dato che verrà diffuso oggi alle 14,30 sul CPI (inflazione americana). Ma un eventuale rialzo, poniamo anche improvviso (fino a 75 basis points) da qui a fine anno, renderebbe veramente sconveniente il ricorso al Margin Debt ? D’altra parte non si vedono quali potrebbero essere le alternative per i capitali eventualmente disinvestiti dal comparto equity. Con i chiari di luna sui debiti sovrani ai quali abbiamo assistito nei mesi recenti, e che continuiamo ad assistere in questi giorni, il rischio percepito dagli investitori sui governative bonds (ma anche sui corporate) è elevato. In altre parole il “vecchio” Flight to quality pare che sia passato di moda, o meglio ancora sembra che si sia invertito il concetto: considerato l’elevato rapporto risk/reward, se proprio ci si deve assumere dei grossi rischi, tanto vale rimanere sull’equity. Non mettiamo comunque troppa carne al fuoco e attendiamo il dato di oggi pomeriggio, e la reazione dei mercati. Per il momento ribadiamo ancora il nostro stay long perchè, nonostante i continui moniti delle Cassandre ribassiste, il rialzo azionario potrebbe… continuare !

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